I Promessi Sposi – Note di regia
Incontriamo le registe della messa in scena “I promessi sposi, avventura di un giovane lettore”: Silvia Masotti e Camilla Zorzi
Perché scegliere di raccontare oggi con un gruppo di giovani dai 14 ai 25 anni proprio i Promessi Sposi?
Se chiudiamo gli occhi, ognuno di noi ha un’immagine di Renzo, Lucia, Don Abbondio, la Perpetua, la Monaca di Monza, etc., ognuno di noi li ha affrontati o li affronta sui banchi di scuola. Qualcuno li ha amati, tanti li hanno odiati, o li hanno trovati terribilmente noiosi, ma ognuno di noi ha un’immagine, più o meno stereotipata, di questi personaggi e ne conosce la storia. Generazioni di adolescenti italiani si sono confrontati con il fatidico tomo: da Quel ramo del lago di Como in poi, nessuno è stato risparmiato. Nessuna opera italiana è così conosciuta, letta e riletta da intere generazioni come I Promessi Sposi, che è in effetti un modello scolastico e culturale di riferimento.
Ma perché portarlo in scena?
Perché forse con il teatro è possibile affrontare l’immensa mole manzoniana da un altro punto di vista. È possibile restituire ai personaggi quella carne e quel corpo che a volte sfuggono nella lettura scolastica del romanzo. Forse, portandolo in scena, possiamo entrare dentro i grandissimi personaggi che Manzoni ci racconta, riconoscerli in noi, per somiglianza, o per antitesi. Entrare nei panni dei personaggi del Manzoni è una grandissima occasione per imparare a leggere i meccanismi della realtà, i rapporti di potere fra le persone, le dinamiche universali dell’animo umano; e per creare dei ponti fra l’indagine di questi personaggi e il presente.
In che senso? Quei personaggi sono stati scritti duecento anni fa e riferiti al 1600. Cosa c’entra questa storia con noi e con la realtà di oggi?
Siamo proprio sicuri che questa storia non abbia niente a che fare con l’oggi? Che non abbia niente a che fare soprattutto con i giovani d’oggi?
In fondo Renzo e Lucia sono due ragazzi che non vogliono fare niente di male: vogliono sposarsi. Eppure il mondo intorno a loro fa il possibile per impedirglielo, in un modo quasi ottuso, insensato, legato a dinamiche sessuali e di potere, esplicite, ma anche insondabili.
Oggi viviamo nell’illusione del tutto possibile e del tutto concesso. Anche il conflitto di classe sembra apparentemente superato. Eppure quando i ragazzi si trovano ad iscriversi all’università, o quando cominciano ad entrare nel mondo del lavoro, quali spazi di movimento reale hanno? Siamo sicuri che sia così facile realizzare le proprie ambizioni, i propri talenti? Siamo sicuri che basti il talento?
E poi, per quanto riguarda l’amore, siamo sicuri che oggi siamo liberi di amare chi vogliamo? Al di là dell’orientamento religioso, del sesso, del colore della pelle? È così facile amarsi oggi e decidere di costruire un futuro assieme?
Manzoni non scrive solo un romanzo d’accuratissima raffinatezza psicologica. Manzoni scrive un romanzo storico, anzi, politico. Certe dinamiche di potere, ritratte da Manzoni, sono riconoscibilissime anche oggi. Prendiamo l’Azzeccagarbugli: la legge non è per tutti, la legge non è per la povera gente, dice. Prendiamo la rivolta del pane, quando Renzo urla alla folla il suo disagio contro un sistema politico corrotto, di prevaricazioni, di ingiustizie sociali, di incompetenze imperdonabili. Prendiamo quella meravigliosa pagina che è l’Addio monti, quando Renzo e Lucia salutano il loro paese natio, obbligati a partire e a disperdersi perché perseguitati; sono costretti ad emigrare, a lasciare tutto.
Non sono questi temi che riguardano l’oggi?
Il passato è fondamentale per riconoscerci, per conoscere il nostro paese, la nostra storia, la nostra identità culturale. L’oggi è profondamente legato a ieri e non possiamo costruire un futuro se non sappiamo da dove veniamo. Manzoni ritrae in modo implacabile certi vizi del nostro paese che sono ancora vivi, seppur celati in forme più subdole, meno riconoscibili, ma non per questo meno asfittiche. Prendiamo ad esempio Don Abbondio: il suo sistema di vita è schierarsi con il più forte, con chi urla di più. Non pensa con la sua testa, non ha un codice morale ed etico di riferimento, nonostante sia un prete.
Non accade fin troppo spesso che ci si schieri con chi urla di più, senza pensare, senza riflettere, senza fare appello al proprio sistema di valori di riferimento? Perché in qualche modo è più facile non pensare e non dare ascolto alla propria coscienza. Non accade forse oggi che la paura di perdere qualcosa condizioni le nostre scelte in modo talvolta assolutamente irrazionale?
Di Don Abbondio che si scambiano le sedie in parlamento, passando da uno schieramento politico all’altro pur di non perdere i propri privilegi, ne abbiamo da vendere. Il nostro paese è vittima della paralisi che questo vuoto di valori e questo immobilismo comportano.
Nessuno più dei giovani d’oggi rischia di essere travolto e penalizzato da tutto questo; ma per trasformare le cose bisogna conoscerle.
Uno spettacolo di un’accademia di giovani non può avere l’ambizione di cambiare meccanismi che riguardano l’Italia da secoli!
No, nessuna ambizione simile.
Però un paese è fatto da un insieme di coscienze, più le coscienze sono consapevoli e pensanti, più c’è speranza. Non ci sono punti di riferimento etici e politici per le nuove generazioni.
Un’accademia dove si fa cultura è un minuscolo punto di riferimento per chi ha voglia di crescere, di confrontarsi e di costruire qualcosa assieme. Il teatro, la musica, sono arti collettive: quello che si costruisce lo si fa insieme, con passione, fatica, ponendosi delle domande. Ogni ragazzo è libero di entrare nelle riflessioni che lo riguardano di più, meno in altre. Ma una cosa è certa: in teatro e nel coro si impara ad ascoltare e a dialogare, altrimenti non succede nulla. A noi pare che questo sia un presupposto importante, porsi in un atteggiamento di dialogo: dialogo con se stessi, con gli altri, con chi la pensa in modo diverso. Entrare in dialogo con un personaggio, o con un’opera importante, o con la storia e la politica del proprio paese, non cambia l’Italia, no, ma ci mette in relazione con la possibilità di trasformazione, personale e collettiva. D’altronde, come diceva Shakespeare, Il teatro è la trappola in cui farò cadere la coscienza del re: il teatro da sempre ha una funzione catartica, svela le maschere, è un luogo di confronto reale, non virtuale. È un peccato che ne stiamo perdendo il senso…
Chissà, forse questa è la nostra piccola grande ambizione: magari le nuove generazioni avranno il coraggio di riappropriarsi del senso di tante cose importanti che stiamo perdendo.
Come la nostra Cultura ad esempio, che non è un lusso per intellettuali, ma conoscenza; è identità, la nostra e quella del nostro paese.
In scena ci sarà quindi un gruppo di giovani attori e il coro.
Sì. Data la mole dell’opera in scena ci sarà un giovane lettore, anzi una giovane lettrice che, a simbolo di tutti i giovani lettori, ci permetterà di entrare e di uscire dal romanzo, di approfondire alcune scene, di creare raccordi, di emozionarci e indignarci con i personaggi della storia; per questo si intitola I Promessi Sposi, avventura di un giovane lettore.
I ragazzi che studiano teatro reciteranno i personaggi principali, ma c’è un personaggio fondamentale nell’opera, di cui non abbiamo ancora parlato: il popolo, il popolo oppresso, il popolo che fa la rivolta del pane, il popolo che si prende la peste. È il collettivo, il contesto di riferimento. Il coro racconterà con la musica e il canto proprio i sentimenti del collettivo, come nella tragedia greca.
Visto che ci sono momenti recitati e momenti di canto la struttura sarà tipo quella del musical?
Assolutamente no! Il musical non è nella nostra tradizione, anche se va molto di moda. Abbiamo tantissima tradizione musicale italiana, perché scomodare il musical che non ci appartiene? Per quanto riguarda la parte recitata abbiamo operato una sintesi del romanzo, ma francamente sia per i dialoghi che per i i raccordi abbiamo usato quanto più Manzoni possibile: come scrivere di meglio?
Per quanto riguarda la parte cantata abbiamo recuperato testi di vecchi canti popolari della tradizione italiana, ballate, canzoni, laudi, testi meravigliosi e, ahimè, ormai pressoché scomparsi. Abbiamo chiesto ad un giovane musicista, Achille Facincani, di musicarli, di dare voce, attraverso la musica e il canto, al collettivo, che va dai giovani che si ritrovano in piazza la sera dopo il lavoro, alla rivolta del pane, alla peste. Il coro è fondamentale per creare le atmosfere del racconto, è potente.
Achille Facincani ha accettato il difficile compito di dare voce e canto a chi di solito non ha voce in capitolo.
D’altronde è proprio questo forse il sugo della storia: dar voce ai deboli oppressi. Al popolo quindi, per Manzoni. Al senso di impotenza e al desiderio di rivalsa verso il futuro, per quanto riguarda i giovani di oggi.
Perché, sia chiaro, che mondo stiamo lasciando in eredità alle generazioni future?