I Promessi Sposi – Note sulla musica
Incontriamo il giovane compositore delle musiche della messa in scena “I promessi sposi, avventura di un giovane lettore”: Achille Facincani
Perché scegliere di musicare il lavoro teatrale di gruppo di giovani dai 14 ai 25 anni e proprio ne “I Promessi Sposi”?
Il progetto è stato programmato in A.LI.VE., si è decisa una produzione che avrebbe avuto i giovani protagonisti in scena che avrebbero interpretato un titolo importante, l’organico degli attori c’era ed era maturo per affrontare un lavoro difficile, il coro giovanile e i solisti pure. Dopo “L’oste in mezo ale done”, che mi ha visto debuttare come compositore nel teatro musicale, appena ho saputo il titolo non ho avuto dubbi, l’ho voluto fortemente affrontare pur sapendo che mi sarei caricato di una grossa responsabilità.
Quali sono stati gli step nell’affrontare la composizione delle musiche?
Ho fatto un grande lavoro con le due registe Silvia Masotti e Camilla Zorzi che mi hanno illustrato come avrebbero voluto interpretare questo testo e cosa avrebbero voluto dalla mia musica. Si è deciso dove inserirla nella storia che è complessa e in che modo sarebbe stata utile alla scena.
Si pensa sempre al compositore nella sua torre d’avorio che in solitudine, magari la notte, trova l’ispirazione e compone. Come sono state scritte le musiche?
Hai detto bene, solitamente scrivo di notte quando non ci sono rumori e posso essere completamente concentrato in me stesso, con il mio pianoforte, la carta pentagrammata, la matita e la gomma e il computer. La torre d’avorio è la mia camera e anche la sede dell’Accademia, luoghi che fanno risuonare il silenzio. Queste per me sono condizioni indispensabili per comporre.
Per arrivare a questo momento creativo ho lavorato molto con le registe assistendo alle prove di teatro, prendendo appunti sui momenti in cui ci sarebbe voluta una particolare musica, respirando con gli attori e i loro movimenti, confrontandomi sul significato di una scelta registica o drammaturgica. Ho fatto un po’ come si faceva ai tempi di Mozart e Rossini che stavano per mesi in teatro a provare con i cantanti e poi in poche settimane scrivevano l’opera senza difficoltà.
Nello spettacolo le musiche sono presenti in alcuni momenti, sono anche cantate?
Certo, avendo a disposizione il coro giovanile e alcuni solisti non si poteva non farli cantare. Poi non scordiamoci che operiamo in un’Accademia Lirica dove il canto è il motore principale. Avere la voce cantata in scena offre al pubblico un’energia maggiore, tutte le sensazioni che i bravi giovani attori sanno dare vengono amplificate dalla potenza espressiva del coro e delle voci. Comunque molte parti sono solo strumentali, aiutano a far emergere una particolare sensazione scenica come per esempio nella notte degli imbrogli oppure a far risaltare il carattere dei vari personaggi. Per esempio Renzo e Don Abbondio hanno dei temi musicali che li contraddistinguono molto diversi tra lor, lo spettatore potrà quindi immedesimarsi più facilmente, definendo e giudicando il loro carattere nello svolgersi del romanzo.
Quale è stato il personaggio che più ti ha coinvolto? Quale situazione scenica è più interessante con le tue musiche?
Devo dire che non ce n’è uno in particolare, tutti hanno attirato la mia attenzione e sviluppato la mia fantasia, per lo spessore di ognuno di loro. Devo dire che, assistendo alle prove di regia, ho trovato molta ispirazione dal lavoro di ogni interprete, ogni ragazzo ha scavato nella psicologia del proprio personaggio e io proprio lì ho dato spazio alle vibrazioni musicali.
Quale sound hai dato a questo lavoro? Che strumenti hai usato?
Ho usato un ensemble particolare con strumenti che arrivano dal repertorio classico ma che ho usato in modo particolare, cercando nuove sonorità e nuovi impasti timbrici: pianoforte, chitarra, vibrafono, archi.
Parliamo delle musiche cantate. Come sono stati scelti i testi? Il coro e i solisti quando cantano?
In un lavoro teatrali in cui la parola recitata prende circa il 70% del tempo si può capire che il restante 30% assume un’importanza fondamentale. Il coro in scena rappresenta il popolo, è stata quindi una scelta azzeccata quella di attingere da testi che appartengono alla produzione orale e popolare, si è prediletto l’uso dei dialetti, in primis quello lombardo vista l’ambientazione e poi quello genovese, quello siculo e quello sardo che hanno dato un’impronta particolare al canto dei migranti. C’è poi un particolare uso del dialetto bergamasco che viene usato nella scena dell’ostessa. Molti testi sono stati scelti da una raccolta di cantiche e poesie del primo Medioevo di Per Paolo Pasolini, l’ho usata per la lauda delle monache nella scena della Monaca di Monza. I solisti sono due: una voce maschile all’inizio che canta in uno dei momenti più delicati, quando Renzo e Lucia decidono di sposarsi e una voce femminile durante la scena dell’osteria che vocalizza prima che Renzo parta verso l’Adda.
Nel coro ci sono tuoi coetanei e ragazzi più giovani, cosa dicono delle tue musiche?
Devo dire che il rapporto dei miei coetanei mi ha un po’ stupito perché passano dal considerarmi amico, con il quale condividono tempo e passioni, a “maestro” e sinceramente questo un po’ mi fa sorridere. Dietro a questa etichetta rispettosa e, se vogliamo, accademica c’è comunque una realtà che ci deve far riflettere e cioè quella del rapporto tra compositore e pubblico. Mi spiego meglio: gli amici del coro, oltre che interpreti delle mie note, sono anche i primi a giudicare ciò che scrivo, quindi sono dei veri e propri critici musicali. Molti di loro mi hanno chiesto il cd delle basi musicali dello spettacolo e alcuni ho scoperto che lo ascoltano spesso, addirittura in macchina. Ciò mi fa capire che le musiche ho scritto sono piaciute e inoltre c’è la volontà di approfondirle, di percepirle fino in fondo. Comunque non vivrebbero mai senza la scena teatrale.
Avere un papà musicista è un aiuto? Che rapporto hai con Paolo?
Avere un papà come il mio non è facile, lui è un serio professionista, preparatissimo e inesorabile quanto innamorato e fiducioso sui giovani, me compreso. Confesso che non ha mai sentito i brani finché non sono stati terminati e che spesso ho fermato la sua inevitabile curiosità. Lui mi lascia fare e sa che la responsabilità me la devo assumere completamente, rispetta tutte le mie decisioni ed interviene solamente quando c’è da parte mia qualche dubbio. Ricorderò sempre il giorno in cui si è messo al pianoforte con Paolo Pachera, mio maestro di composizione, e hanno suonato e analizzato il coro della peste per la prima volta, avrebbero potuto farmi a fette e invece mi hanno fatto i complimenti, mi hanno confermato, dopo un’analisi che per me è stata peggio del peggior esame in conservatorio, che il brano funzionava e che aveva delle sonorità nuove e inaspettate anche per loro che di musica ne hanno fatta già parecchia.
Ma è vero che devi ancora scrivere il finale?
Mi pare che su questo aspetto si stia montando un “casus belli”. È vero, non l’ho ancora scritto ma ce l’ho tutto in testa. Tutti lo vogliono e sembra che senza questo benedetto finale il lavoro rischi di non andare in scena. Tranquillizzo tutti dicendo che anche Verdi ha passato al tenore l’aria “La donna è mobile” solo alla fine delle prove della prima del Rigoletto. Anche ne “L’oste in mezo ale done” il finale è stato studiato dal coro direttamente in teatro il giorno prima della prima recita e tutto è filato liscio. Il finale è importante, se si sbaglia si rischia di far dimenticare tutto lo spettacolo al pubblico. In questi Promessi Sposi è importantissimo, è il grido che noi giovani lanciamo alle persone più grandi di noi, a chi ha il potere, a chi può decidere, a chi può cambiare. In questo non sono solo, sono con i miei coetanei, con le registe e con mio padre.
Perché questo lavoro non si può definire un musical?
Perché non lo è. Oggidì si tende a etichettare con troppa facilità la maggior parte dei lavori di teatro musicale come se fossero dei musical, alcuni lo sono altri no. Aggiungo che in Italia non abbiamo questa tradizione, la nostra tradizione è quella del melodramma, dell’operetta e della commedia musicale. Con questi Promessi Sposi siamo in un altro ambito, non etichettabile. Vedremo nei prossimi anni, dopo varie messe in scena, se ci sarà modo di etichettare questo tipo di teatro musicale.
Cosa ti aspetti dopo la prima dal pubblico?
Faremo tre recite a maggio, serviranno a tutti per delimitare bene lo spettacolo, capire veramente ciò che funziona e ciò che va migliorato. Solo dopo averlo visto in scena potremo mettere a punto ciò che avremmo voluto funzionasse da subito. Il vero debutto cittadino sarà a ottobre al Teatro Ristori, lì faremo vedere veramente uno spettacolo robusto e ben cresciuto, interpretato da una cinquantina di ragazzi che si impegnano per raggiungere un livello comunicativo e interpretativo molto alto. Spero che il pubblico sappia capire il vero significato e il vero messaggio che abbiamo tutti voluto dare e sul quale contiamo molto.